Kenya & Tanzania
“Di questi giorni intensi, stravolgenti e pieni mi porto a casa tanto:
la consapevolezza amara che spesso i destini non si possono cambiare, ma solo accompagnare per un breve tratto, che si può comprendere, accettare, ma non condividere e quindi scegliere e forse lottare che anche se ciò che viene fatto è poco, “it’s worth it”(ne vale la pena), perché bisogna fare il necessario prima di arrivare al possibile e poi, magari un giorno, fare l’impossibile.
Conservo nel cuore la bellezza di relazioni autentiche, gioiose alle quali va la mia più profonda riconoscenza il ricordo di storie, momenti, emozioni, voci, suoni, sapori che, spero, con tutto il cuore, possa rimanere vivido nel tempo ma anche la rabbia che lotta, che combatte e che salva la nostalgia di una pienezza vissuta intensamente, come fanno i pescatori, che non si tirano mai indietro”.
Queste le parole che accompagnano un mio post su Instagram, fatto di immagini, fotografie e video che raccontano un’esperienza viva e piena, vissuta lo scorso anno a Nairobi, che mi ha ricordato cosa vuol dire stare nella vita e mi ha, quindi, spinto a tornarci, nella vita, partendo, quest’anno per la Tanzania.
Individuare quel filo rosso che unisce quanto provato in Kenya con quello che ho sperimentato in Tanzania non è semplice.
Forse la chiave è proprio legata alla sensazione di pienezza provata in entrambi i contesti da me vissuti nel continente africano, così diverso dal nostro nella forma, nei colori, nei sapori, negli odori, nei profumi, e così intensamente consolante, nonostante le brutture, le difficoltà, la povertà e le condizioni di vita estreme.
Una comunità che accoglie ragazzi ex tossico dipendenti e una che ospita minori usciti dal carcere sono state le due realtà in cui ho vissuto lo scorso anno quando, nell’agosto del 2023, sono arrivata, in compagnia di altri quattro volontari, in Kenya, a Nairobi.
Ero partita equipaggiata: in valigia avevo tutto quello che sarebbe potuto servire, dai vestiti, agli insetticida, dalle medicine, alle creme solari. Avevamo studiato: l’Associazione di volontariato con la quale partivamo ci aveva formato, illustrandoci le realtà nelle quali avremmo vissuto, la situazione storica e politica di Nairobi, istruendoci su cosa venisse ritenuto socialmente accettabile e cosa meno, su quali vestiti fosse meglio indossare, sulle zone più sicure della città e quelle meno.
Eppure, nonostante tutta quell’equipaggiamento e quello studio, non ero ancora pronta.
Non ero preparata a fare entrare così tante vite, così tanto diverse dalla mia, nel mio cuore, non sapevo fino a che punto si sarebbe potuto aprire, eppure, è stato spontaneo, inatteso, soprattutto dirompente.
Non ho mai avuto la presunzione di cambiare una realtà, ma ho sempre nutrito la forte speranza che queste esperienze mi avrebbero cambiato gli occhi e aperto il cuore e i miei desideri sono stati del tutto attesi, ben oltre le aspettative.
A Nairobi abbiamo incontrato ragazzi che cercavano una seconda possibilità, dopo aver commesso reati o dopo essere entrati nel circolo della dipendenza da sostanze stupefacenti.
Provenienti da contesti deprivanti e degradati, dove la vita, per usare le parole di Clarissa Pinkola Estes, viene pugnalata, spogliata fino all’osso, scagliata a terra, ridicolizzata, ignorata, disprezzata, vilipesa, torturata o resa impotente, questi giovani sono alla ricerca di una redenzione, di una seconda possibilità.
L’attività di noi volontari era quella di stare loro accanto, ascoltando le loro storie, non facendoli sentire soli, accompagnando un tratto della loro vita, con cura, umiltà e attenzione.
Le domande sono sempre state tante, consapevole della realtà esistente e del fatto che questa non si sarebbe potuta cambiare, mi sono spesso interrogata se ne sarebbe valsa la pena.
Mi è bastata la laconica risposta “it’s worth it” di un ragazzo, dal passato estremamente travagliato e condannato a un futuro certo: senza famiglia, senza supporto, con precedenti penali, la vita di strada non avrebbe avuto pietà di lui.
Questo frammento di vita, per me intenso e sofferto, è stato la chiave: non tutto è perduto, non tutto è buttato o da buttare, c’è chi, nonostante la sofferenza, lotta e spera.
Lo dimostra la storia di un giovane che, orfano sin dai primi mesi di vita, viene cresciuto con sevizie e violenze dalla famiglia materna, ma all’età di nove anni decide di fuggire, di crearsi il suo destino, diverso da quello che sembrava scritto e con le sue forze, la sua resilienza e grazie all’incontro di persone speciali che lo aiutano e si sacrificano per lui, riesce a cambiare radicalmente vita: ora studia presso una delle più prestigiose università della capitale e ha la possibilità di sognare in grande.
Per questa ragione ho capito che non basta partire per inseguire quella sensazione di pienezza e di vita, bisogna partire anche perché si crede fortemente in quello che si fa, nel viaggio che si intraprende, nel progetto che si
scopre.
In Kenya ho vissuto da vicino, a tutto cuore, la verità delle parole di Alex Zanotelli, il quale, in uno dei suoi scritti, afferma “a Korogocho [slum della capitale], ho anche sperimentato quanto i poveri riescano a guarire ferite, a rimarginare lacerazioni, con una celerità impressionante. È la vita che vince, nonostante la morte che ci circonda”.
Mossa da questa vita che mi ha colpito come un fiume in piena, decido di ripartire, ancora una volta diretta in East Africa, poco più a sud, in uno Stato confinante con il Kenya: la Tanzania.
Qui vivo in una missione, fondata da Padri Passionisti, un ordine religioso cristiano cattolico.
La nostra destinazione finale dista 6 ore di macchina da Dar Es Salam, principale polo economico della nazione, dove atterriamo dopo un lungo viaggio.
Mi immergo in una realtà del tutto diversa da quella in precedenza sperimentata: non più una grande città, ma un piccolo villaggio, non più edifici in lamiera o grandi palazzi in mattoni, ma piccole case di legno e fango, non più strade asfaltate e, spesso, maleodoranti, ma terra rossa d’Africa, intrisa di pioggia che pare non voler smettere mai.
Qui non entro in contatto con la vita che lotta, non incontro giovani di strada che provengono dalle slum, caratterizzate da condizioni di vita precarie in cui l’acqua corrente e salubre non arriva, in cui manca cibo adeguato per la crescita dei bambini e la salute degli adulti, in cui le case sono sovraffollate e le strade caratterizzate da insicurezza, violenza e abuso di sostanze stupefacenti.
In questa missione conosco adulti e bambini, famiglie e ragazzi, che, seppur nella difficoltà e nella povertà estrema, lavorano e contribuiscono alla crescita e alla costruzione di questa realtà.
Se da un lato il Kenya è stata una coltellata dritta allo stomaco, per poi, però, diventare cura che ricuce, donandomi luce nuova, dall’altro la Tanzania è stata per me respiro, calore di persone che credono di potercela fare e che, mattone dopo mattone, pietra dopo pietra, passo dopo passo, inseguendo il necessario, si trovano a realizzare l’impossibile.
Ho visto la povertà nelle case senza elettricità, costruite con pali di legno incrociati e fango, nei vestiti decorosi ma semplici, indossati dalla maggior parte delle persone per la maggior parte dei giorni, tranne per la domenica, giorno della festa, nelle calzature usurate, ma funzionali e necessarie.
Ho visto la ricchezza negli sguardi di persone che sanno stare accanto, nelle mani di coloro che costruiscono, che negli ospedali lavorano mettendosi a servizio e mettendo a disposizione la propria formazione e la propria conoscenza.
Ho ascoltato storie di volontari italiani che in questa missione sono cresciuti e che hanno accompagnato la mia esperienza nei giorni di maggiore fatica, ma anche di più grande gioia.
Ho visto il fondatore di questa missione darsi agli altri senza tregua e senza sosta, letteralmente giorno e notte, per mantenere in vita una realtà che la vita la moltiplica. Un esempio di tenacia, di umiltà, ma anche di forza, leggerezza e allegria. Letteralmente un fuori di testa, che grazie alla sua follia ha costruito in grande.
Ho visto bambini diligenti, ascoltare quello che veniva loro impartito dalla maestra. Li ho visti entrare tra loro in competizione, con qualche piccola azzuffata, che terminava sempre senza un pianto.
Ho dipinto nel cuore e nei miei occhi l’immagine di un popolo resiliente, che, nonostante la fatica, porta avanti quello che serve ed è necessario, mantenendo i ritmi della natura, dall’alba al tramonto, concependo il tempo,
lo scorrere dello stesso e le distanze in maniera del tutto asimmetrica e distante dalla percezione europea.
Si tratta di vivere quel che è, di accettare una realtà, lo scorrere del tempo e delle stagioni così come la lunghezza di una strada, il saper attendere, anche per momenti che a me sembravano interminabili, senza opporsi, senza cercare di modificare, ma accogliendo quel che viene.
Questa volta porto a casa l’immagine un missionario e di lavoratori instancabili, colori caldi e vivaci, musiche ritmate e coinvolgenti, terra rossa bagnata e intrisa di acqua, pioggia che cade inesorabile, allagando sentieri, e poi sole che asciuga e scalda fino alle ossa, immense distese di verde e vegetazione rigogliosa e anche un tuffo nell’Oceano Indiano.
La risposta al quesito iniziale che mi sono posta, in merito a cosa legasse la mia esperienza in Kenya con quella in Tanzania, credo proprio che sia l’apprendimento più importante che ho potuto ricevere fino ad ora ed è la consapevolezza che mettersi al servizio non è facile, richiede sacrifici, non è “cool” e non sempre è come ce lo si aspettava.
Mettersi al servizio significa sapere stare accanto, avere aspettative aperte, sapersi far cullare dalle onde della vita senza opporre resistenza, senza pretendere niente in ritorno.
Mettersi al servizio apre il cuore, lo riempie di nomi, di volti, di voci e lo rende pieno e in pace.
Questo è il più grande insegnamento che ho ricevuto con le esperienze di volontariato nel mondo: mettersi in gioco e immergersi senza remore, svuota totalmente la mente, il cuore e l’anima dal superfluo e li riempie della gioia più vera.
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